Metal Gear Solid V: The Phantom Pain • Recensione (2 di 2)

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Parte 1 di 1

L’opera creta da Kojima inizia da dove si è interrotta con il suo prologo, Ground Zeroes: Big Boss, dopo essere rimasto per 9 anni in coma a causa dell’incidente nella Mother Base si sveglia dal suo lungo sonno, ritrovandosi in un mondo completamente cambiato rispetto all’ultima volta.

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I Militare San Frontiers si sono dispersi in tutto il mondo nonostante l’opera di Miller per riuscire a tenere coesa la piccola nazione di militari creata con le loro mani, e il risveglio improvviso dell’erede di The Boss ha portato altre forze a muoversi per eliminare definitivamente la minaccia che comporta la sua figura.

Da queste premesse parte The Phantom Pain, cogliendo di sorpresa il giocatore con una grande novità: la possibilità di dare il proprio nome, la data di nascita e un volto a Snake. Questa parte iniziale è un impatto gigantesco per il giocatore, visto che aumenta esponenzialmente l’immedesimazione con il gioco, immedesimazione che viene supportata ancora di più dal carattere che assume proprio Snake in questo capitolo: silenzioso, freddo e poco loquace che, se paragonato ai precedenti capitoli Big Boss sembrerà quasi un’altra persona.

Dopo quindi un prologo gestito e diretto magistralmente da Kojima, riprendendo anche elementi horror e di tensione visti nella demo P.T. di Silent Hills, il giocatore si ritrova catapultato nel mondo di gioco: il sistema a primo impatto è molto simile a quello visto precedentemente in Ground Zeroes con la possibilità di scegliere di volta in volta una missione da svolgere fra quelle principali o fra le opzionali. Una scelta di gioco che, come nel titolo citato prima, riprende molto da Peace Walker, staccandosi di netto da giochi come Metal Gear Solid 3 o 4 che si basano moltissimo sulla linearità delle missioni e della storia. Questa scelta narrativa, anche se può risultare snervante visto lo spezzarsi all’improvviso della narrazione, viene tuttavia premiata dal gameplay e dalla grande libertà che si concede al giocatore. Prorio questo è, infatti, uno dei punti di forza del titolo: la giocabilità.

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La mappa di gioco si presenta infatti come un enorme open world da esplorare in lungo e in largo a piacimento del giocatore, nella quale avrà completamente libero arbitrio su come affrontare le missioni. La grande quantità di variabili nel gioco permettono infatti di mettere il proprio “segno”, la propria impronta, in ogni sessione di gioco: cambiamenti atmosferici, le ore del giorno, pattuglie di veicoli nemici sulle strade, avamposti presidiati e la possibilità di richiamare vari tipo di supporto aereo sono alcune delle tantissime scelte che il titolo ci offre da utilizzare per raggiungere l’obbiettivo finale. Vogliamo sfruttare la visibilità della luce del sole e tentare un approccio più rischioso per infiltrarci in una base nemica? Il gioco lo permette. Si preferisce invece un approccio più sicuro, aspettando la notte per sfruttare le ombre così da non farsi vedere? La scelta è nostra.

Decidete di voler far passare un paio di ore con il vostro sigaro per attendere una tempesta di sabbia e buttarsi in mezzo all’accampamento con il proprio mezzo, sfruttando la confusione così creata? Ogni cosa è possibile, con le dovute conseguenze.

Venire scoperti infatti provoca non solo la reazione delle armate nemiche, ma anche il loro cambiamento nelle strategie: i nemici terranno conto dell’approccio di Snake, iniziando a indossare giubbotti antiproiettili se troppo aggressivi o portando sempre un elmetto nel caso il giocatore decida di passare al puro cecchino. L’approccio stealth e non letale verrà sempre premiato con un maggior punteggio, ma ciò non toglie che potremmo in ogni momento decidere come agire.

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Il gioco quindi cambia e si adatta a seconda delle proprie scelte, rendendo ogni missioni affrontabile in tantissimi modi e rendendole sempre diverse, permettendo una rigiocabilità e un divertimento continuo. Altro fiore all’occhiello del gioco è l’utilizzo delle spalle: andando avanti nelle missioni si sbloccheranno determinati personaggi che potranno affiancare Snake in ogni missione e supportarlo a seconda delle esigenze. Potremmo quindi scegliere fra il D-Horse, un cavallo bianco adatto per le lunghe distanze o per le fughe veloci, D-Dog, un Walker Gear, un piccolo mecha personalizzabile, e Quiet, la temibile e letale cecchina, inserendo ulteriori variabili nella propria sessione di gioco. Quiet ci darà sempre un costante supporto dalla distanza, eliminando le minacce fin troppo vicino a noi con un nostro segnale, D-Dog potrà distrarre i nemici o fiutare piante utili od ostaggi rinchiusi, mentre il Walker Gear, se modificato a dovere, può fare davvero dei grandi disastri.

Un altro grande ritorno ripreso da Peace Walker sono la Mother Base è il Fulton Recovery System: i soldati reputati migliori e con delle particolari caratteristiche, visibili dopo una breve analisi tramite il binocolo, potranno essere portati direttamente nella base operativa del gioco, la Mother Base. Il trasporto tramite fulton metterà comunque in allarme le altre guardie se fatto in una zona non sicura, e arriveranno anche a sparare al pallone per salvare il proprio compagno: anche qui la scelta, dipende sempre dal giudizio del giocatore che, deve decidere se rischiare per avere un buon soldato o lasciar perdere.

La possibilità di recupero sul campo di battaglia non è limitata solo agli uomini, ma anche a veicoli, casse di metalli preziosi, container e addirittura animali. Tutti questi possono essere prelevati sul posto e spediti alla base contribuendo ad arricchirla con personale e inutili amenità.

Al contrario di Peace Walker, la Mother Base sarà visitabile ed esplorabile, vedendo e toccando con mano la sua evoluzione e le cose portate direttamente dal campo di battaglia. Questa componente aggiunge anche una sessione gestionale al gioco: oltre a scegliere il reparto migliore per ogni uomo portato alla base, la Mother Base può essere ingrandita e gestita a proprio piacere mandando delle truppe esterne per delle missioni in giro per il mondo e sbloccando sempre più progetti e armi man mano che il livello aumenta in ogni settore.

La sua gestione tuttavia non è perfetta, pecca, infatti, di un menù poco intuivo e con dei caricamenti leggermente troppo lunghi anche se rimane comunque uno stacco piacevole in tutto il gioco. Inoltre è presente una modalità online che permette di sfidare anche le Mother Base di altri giocatori o difendere la propria dagli attacchi avversarsi, sviluppando armi per il proprio staff e strutture adeguate per la difesa. Potremmo anche far intervenire direttamente Snake, salvaguardando i propri uomini dall’essere portati via durante uno di questi attacchi.

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La giocabilità non va comunque a sovrapporsi a un altro dei pilastri che ha reso storica la saga di Metal Gear, ovvero la storia e i suoi personaggi.

Nonostante la scelta di Kojima di puntare a meno scene d’intermezzo, forse memore delle critiche di alcuni a Metal Gear Solid 4 e ai suoi lunghi video, il livello di The Phantom Pain nei momenti più importanti della storia rimane sempre degno del suo nome. Dopo i geni, il libero arbitrio e la pace tratta nei precedenti capitoli, The Phantom Pain prende in analisi dei temi alquanti forti e interessanti come la vendetta.

Oltre a ciò viene preso anche in notevole considerazione il concetto di “razza”, soffermandosi in particolar modo sulla lingua di appartenenza, con la quale ogni popolo identifica e basa le proprie radici. Presenza costante che aleggia su tutto rimane comunque il concetto di “dolore fantasma”, che affligge ed è presente non solo nella mente e nel fisico Snake, ma in quasi tutti i personaggi più importanti, dando al gioco un aria molto cinica e crudele come reazione fisiologica a questo dolore.

Da tali argomenti Kojima riesce a districarsi egregiamente, sviluppando dei personaggi che si modificano ed evolvano coerentemente con se stessi, risaltando a volte molto più di Venom Snake. Un plauso va fatto alla caratterizzazione di Skull Face, che dopo la sua presentazione in Ground Zeroes si dimostra in The Phantom Pain come uno dei migiori nemici mai affrontati da Big Boss.

Degna di nota è la possibilità di cambiare la storia che potrà variare a seconda delle nostre azioni all’interno della stessa: potremmo infatti decidere il destino di alcuni personaggi importanti della storia, e se accettiamo di compiere alcune missioni opzionali o di portare avanti il nostro livello d’intesa con le spalle ci permetterà di sbloccare nuovi filmati che andranno a modificare radicalmente alcuni eventi. Il tutto è inoltre supportato da una regia impeccabile nelle cutscene e musiche che si adattano a ogni situazione mantenendo sempre alta l’attenzione sugli eventi…fino al primo capitolo.

Perché uno dei primi e grandi problemi di The Phantom Pain compare, paradossalmente, nel suo più grande punto di forza. Se il primo capitolo, Vendetta, ha delle missioni decisamente varie sia negli obbiettivi che nelle ambientazioni, con avamposti sempre diversi…il secondo, Razza, è come se fosse un arto tagliato.

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Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è infatti, sul punto di vista narrativo, un gioco incompleto. Le missioni della seconda parte non progrediscono più ma sono in pratica un copia e incolla di quelle precedenti, con le stesse postazioni e gli obbiettivi messi negli stessi punti con la differenza di una difficoltà “maggiorata”. Molte di esse potranno essere infatti superate solo a particolari condizioni, come non farsi mai scoprire o utilizzando esclusivamente l’equipaggiamento trovato sul posto, ma che di fatto sono le stesse missioni del primo capitolo. Persino le cutscene sono state riprese e incollate brutalmente, andando a spezzare e rendendo insensata la narrazione della storia, e di conseguenza le stesse boss fight hanno sofferto per la necessità di adeguarsi al nuovo gameplay. I boss sono cuciti attorno alle mappe del gioco e non gestite come sequenze a parte, compaiono più sporadicamente e decisamente risulanto meno originali e belli rispetto a quelle dei suoi predecessori, come The End in Metal Gear Solid 3 o le Beauty and The Beast di MGS4. Questo cambio improvviso dal primo capitolo deriva dalla scelta di Kojima di utilizzare la seconda parte del gioco come una sezione di “approfondimento”: The Phantom Pain finisce nel primo capitolo, mentre il secondo è per chi vuole sapere di più, impegnandosi e andando avanti in queste missioni difficili.

Fondamentali diventano le cassette audio che si sbloccano man mano nel gioco, le quali ci permettono non solo di progredire nella storia, ma di capire anche cosa è successo e cosa sta succedendo all’interno del mondo di gioco, visto il brusco taglio nella narrazione.

La soluzione messa in atto da Kojima è quindi un compromesso per non lasciar cadere senza spiegazione gli eventi raccontati fin a ora, ma ciò rimane comunque un precedente grave e incomprensibile per un Metal Gear, soprattuto se consideriamo l’assenza della famosa missione 51 (presente solo nella sezione extra della collectors edition) che andrebbe a risolvere molte di queste lacune presenti nella seconda parte.

Tecnicamente parlando il Fox Engine, nonostante la non più giovane età, fa un lavoro egregio, sopratutto per quanto riguarda la vegetazione e la luce, e a parte qualche bug con il cavallo il gioco non riscontra alcun altro tipo di problema. Una pecca enorme riguarda l’adattamento italiano, uno dei peggiori mai fatti per un titolo di tale calibro, con parole e termini cambiati che vanno a stravolgere completamente il senso della frase.

Eppure, nonostante il dolore provato nel aver subito tutti questi tagli, The Phantom Pain riesce a sollevarsi e recuperare l’unica nota dolente con il suo finale. La conclusione che Kojima è riuscito a dare alla sua opera riesce infatti a far dimenticare, anche solo per un momento, tutti i problemi riscontrati nella seconda parte, facendo tornare prepotentemente in scena ciò che ha reso grande la sua serie. Il gioco riesce a colmare, nonostante qualche leggera lacuna, tutti gli ultimi misteri lasciati in sospeso nella serie, chiudendo un ciclo lungo decenni. Addirittura, il gioco riesce a ricollegarsi con il Metal Gear del 1987, compiendo un’impresa che molti non avrebbero pensato di poter vedere con i propri occhi.
Quelli che abbiamo quindi davanti a noi con The Phantom Pain è una delle opere più belle nell’ambito videoldico degli ultimi anni, un titolo che, senza i tagli e i problemi della seconda parte, sarebbe potuto essere ancora più bello. E nonostante tutto, le scelta di Kojima, oltre a ribadire l’enorme vicinanza con Peace Walker, riescono a far emergere e e elevare il titolo di una spanna sopra tutti gli altri usciti di recente.

Pro

  • Storia, personaggi e narrazione di ottimo livello
  • Conclude e non lascia indietro quasi niente della Metal Gear Saga
  • Gestione completa della Mother Base
  • Buona grafica e ottimo lavoro del Fox Engine

Contro

  • Caricamenti a volte troppo lunghi e una gestione non troppo intuitiva della Mother Base
  • La cattiva gestione dei contenuti di gioco
  • "A Hideo Kojima Game"??
10

Eccellente